Le Città Invisibili è un diario di viaggio in luoghi straordinari. La storia è incentrata sugli incontri tra l’anziano imperatore tartaro Kublai Kan e il giovane Marco Polo, mercante veneziano, giunto alla sua corte. Nel tentativo di conoscere il suo regno senza muoversi dal palazzo del potere, il Kan chiede a Polo di percorrere i suoi territori per raccontargli la forma e la vita delle città che lo costellano.
Ad ogni ritorno Polo narra a Kublai di città fantastiche dai nomi di donna: città di gioia e desiderio, città venate di rimpianti, città vivaci, città dell’assenza o della morte: quasi tutte sono città impossibili, che sfidano la logica e il tempo. Affascinato ma scettico sui racconti del viaggiatore, il Kan lo incalza perché vorrebbe risposte capaci di riaccendere le aspettative che ha perso nel momento in cui ha raggiunto il possesso del suo regno e Marco Polo, con la sua narrazione, riesce ad provocare nuove visioni e dare alle conquiste del Kan un nuovo senso.
Oniriche, suggestive, complesse nel loro metatesto, le Città di Calvino forse sono invisibili soltanto a chi non sa guardare, o non vuole farlo, ma in realtà sono sul confine nebbioso fra l’immaginario e il reale ed hanno una struttura solida che lo spettacolo segue e offre. Potrebbe sembrare una fiaba, ma non lo è perché (quasi) tutto quello che descrivono le città scelte per la narrazione esiste, e ci si crede per esperienza, non per convenzione.
Ogni città rappresenta qualcosa di noi: sogni, vizi, dolori, immaginario, danza, paura. Ognuna è l’inizio ed anche la fine: le voci degli attori spianano la strada. Le parole fanno luce. Il dialogo fra Marco Polo e Kublai Kan s’attarda fra segreti, iperboli, prospettive ingannevoli, fragilità e vita mentre attorno prende forma qualcosa di nuovo, perché forse è vero, come dice il Kan, che ogni città altro non è che la descrizione di una sola, unica città. Quella perfetta.
NOTE DI REGIA
Le Città Invisibili non è un testo teatrale e, secondo lo stesso Calvino, non è neanche un romanzo, ma un diario, un insieme di suggestione. Eppure, portato in Teatro senza adattamenti, semplicemente come un intreccio di monologhi, supportati da azioni, musiche, ha quasi la potenza della scrittura shakespeariana. Attenendoci rigorosamente al testo, abbiamo infatti scelto, fra le cinquantacinque scritte da Calvino, quindici città e dieci appartenenze: memoria, desiderio, segni, cielo, città sottili, occhi, scambi, città dei morti, città e nome, città continue basandosi sulla loro attualità, sui significati della memoria e sulle simbologie che le rendono espressione della necessità di un nuovo dialogo fra civiltà.
Uno dei fili conduttori è il viaggio, quello che intraprendiamo ogni giorno alla ricerca del nostro equilibrio, quello che ci induce alla scoperta di nuove possibilità, quello che può cambiarci intimamente anche se non lo sappiamo, ma anche quello che passa attraverso le nostre terre e i nostri mari, intrapreso da altri esseri umani come noi alla ricerca di una nuova pace e di nuove risposte.
Un altro è il sogno, quello che ci accompagna lungo il sonno, ma anche quello fatto dai nostri talenti e dalle nostre speranze, quello che ci viene in soccorso quando tutto sembra crollare, quello che ci offre il senso del provare, e del trovare e del non arrendersi di fronte alle difficoltà o agli orrori.
I piani di lettura e di rappresentazione sono molteplici e sempre doppi: dall’alto e dal basso, dal mare o dalla montagna, attraverso e attorno, fuori e fin dentro la terra, dei vivi e dei morti, pieno e vuoto, silente e rumoroso, continuo e interrotto.
Ed è proprio questo doppio -che a sua volta si triplica e si moltiplica- il filo conduttore dello spettacolo che mette in scena, grazie alla narrazione di un Marco Polo il cui ruolo è suddiviso fra tre diverse persone che rappresentano lo stesso “uno”, un aspetto differente del racconto, mettendo a confronto ed arricchendo le diversità di ciascuno. In particolare il viaggiatore veneziano è interpretato da tre donne, tre viaggiatrici del tempo, dello spazio; dei sogni e della contemporaneità. Tre donne che rappresentano tre età, tre fasi della vita, tre provenienze, a loro volta mescolate dalle tappe dei loro viaggi interiori e fisici; tre modalità di affrontare l’ignoto, tre possibilità di confrontarsi con il potere… Tre viaggiatrici che chiamano lo spettatore anche ad un percorso nella sua immaginazione, nel ricordo di attimi vissuti o nella cattura di corrispondenze con la vita quotidiana alla quale -amara o splendente che sia- egli non può sottrarsi.
Lo spettacolo non ha un tempo o un luogo specifici, è la provenienza da regioni lontane, steppe, deserti, montagne, mari a uniformare la narrazione che si suddivide in quattro macroscene: un Prologo nel quale il Kan, dall’alto della sua reggia racconta il suo stato d’animo di conquistatore che non riesce a conoscere la realtà del suo impero e il suo incontro con il mercante venuto da Venezia; la scena del Mercato, nella quale le tre viaggiatrici con le loro mercanzie giungono nella piazza ai piedi del palazzo del Kan e dispiegano il mercato; la scena del Bivacco, quando, a notte, riposti gli oggetti, si può sedere attorno al fuoco ed iniziare a raccontarsi storie che faranno compagnia durante il nuovo viaggio; ed infine, la scena della Partita a Scacchi, giocata sul pavimento della reggia di Kublai Kan, quasi una sfida al cambiamento dei tempi (se non addirittura alla morte).
I dialoghi fra Polo e il Kan sono invece stati scomposti e ricostruiti nella loro temporaneità, lasciando, per lo più, il testo originale per perseguire il senso più profondo che abbiamo dato alla lettura: ogni città che incontriamo nella narrazione è un aspetto diverso della città ideale che, quotidianamente ipotizziamo e speriamo, quella che rappresenta le nostre aspettative. Ognuno di noi, infatti, giorno dopo giorno realizza una sua città, una metafora del proprio rapporto con la vita. Ognuno si rapporta alla vita con quelle che sono le sue capacità e con i sensi che mette in campo per riuscire a leggere le proposte della vita. Ed ogni città rappresenta qualcosa di noi: sogni, vizi, dolori, immaginario, danza, paura.
Le musiche originali del compositore Tito Rinesi sono frutto di un profondo lavoro di ricerca sul testo. Le parole e gli oggetti si trasformano in suoni e sonorità evocative; i ritmi inseguono o anticipano le azioni: rumori di mercato e di carovane, cori classici e armonie contemporanee introducono e sostengono le città o i dialoghi fra Marco Polo e Kublai Kan, chitarre di fado s’abbracciano a accenni hip hop; ad ogni inizio un segnale forte (il richiamo del Muezzin alla preghiera, il canto armonico dei monaci gyuto tibetani…) provoca sospensione, stupore ed accompagna lo spettatore fino al cuore della scena.